Roubaix mon amour. Il pavé di Ballerini

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Chi pedala sa bene che ciò che lo porta a faticare su due pedali è essenzialmente la passione. La bici è qualcosa di celebrale ed emotivo, un filo che ti tira e che ti porta a lei, a soffrire con lei, a starle accanto, in salute e in malattia, in felicità e sofferenza. Questo sempre, nelle strade contro vento, nelle salite che si impennano sotto le ruote, quando la pioggia arriva a lavarti del sudore e a bagnarti di asfalto zozzo, quando il sole ti spacca il coppino e ti asciuga la borraccia. Questo ovunque, certo, ma su al nord est della Francia, tra Parigi e Roubaix ancora di più.

La Parigi-Roubaix è la quintessenza di questa passione, è irrazionalità e follia, bici allo stato puro e raziocinio allo stato brado. Qualcosa del genere non ha senso, forse ne aveva una volta, ma ora nell’epoca delle strade perfettamente asfaltate, delle vie ispezionabili dall’alto con tanto di dettagli in bella vista, no. Il buon senso è però cosa da gente da divano, vecchietti da città, automobilisti da suv. Il buon senso è una cazzata pazzesca, perché per buon senso non si affronterebbe Stelvio e Mortirolo, ma neppure il Gianicolo o il Colle Brianza.

La Roubaix lascia la razionalità fuori dalla porta e se ne frega di essa. Perché chi sale sino al nord della Francia sa cosa troverà sotto le ruote e questo gli piace. Asfalto, molte volte malconcio, seccato da vento e coperto di polvere, di terra dei campi vicini. E poi pietre, tante e coriacee, buchi tra loro, erba che spunta, polvere che sale con il bel tempo, fango che ti si attacca diretto in faccia quando piove. Stare in piedi, prima regola, poi forza, perché per spingere serve, è essenziale, soprattutto mentre devi domare la bici che sembra cavallo imbizzarrito, che sbanda, saltella, traballa, sembra di piombo. Questo certo, ma soprattutto equilibrio, dinamicità, eleganza. Il pavé non lo si tiranneggia, non lo si domina, al massimo lo si doma, ci si adatta a lui, è lui che vince e tu che perdi se lo sfidi. Lo si attacca, ma con dolcezza, accarezzandolo.

Franco Ballerini in ciò fu maestro. Il pavé rumoreggiava sotto la sua ruota e lui lieve lo assecondava, accelerava, ma con rispetto, senza sfidarlo. Gli altri arrancavano, si scomponevano, avanzavano di spalle, mentre lui era una sola cosa con la bici, vibrazioni e buche diventavano contorno di un’armonica velocità. Vent’anni fa, oggi, il primo successo. Potevano essere ventidue, gli anni, se nel 1993 non perse la corsa per aver alzato le mani troppo presto. Potevano essere tre, bissò nel 1998, rimasero due, ma è dettaglio di poco conto. Perché se chiedi in giro, se ti guardi attorno tra le strade di Roubaix, città non corsa, troverai ancora qualcuno che di lui si ricorda e che ti dirà: “Mai nessuno come Ballerini”, nemmeno Moser, che su al Nord era di casa, che qui ha trionfato tre volte, nemmeno Museeuw, che sul pavé è stato, forse, il più forte, nemmeno Boonen, che quattro ne ha vinte, nemmeno De Vlaeminck, che quattro ne ha dominate.

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Ballerini rappresentava eleganza in un mondo dove l’eleganza non è richiesta, dove si corre in calzoncini e maglietta e si è alla mercé di temporali e fanghiglia, sole a picco e sudori. Ballerini è immagine di fango che entra nel velodromo per l’ultimo giro della sua carriera a minuti e minuti dai primi e viene come il vincitore, pubblico in piedi e scroscio d’applausi. Lui abbassa il capo, saluta, poi seduto sulla bici apre la zip della maglietta: MERCI ROUBAIX sulla canotta, gli occhi velati di lacrime e terra, un braccio alzato a ringraziare gli appassionati. E’ il suo addio alle competizioni, l’ultimo atto nel posto più amato. Perché è questo la Roubaix, essenzialmente amore e poco importa se dicono sia “l’ultima follia del ciclismo”, l’amore può prevedere follie.

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